Finalmente trovo il tempo di scrivere e dunque di mettere un po' di ordine fra gli eventi rocamboleschi di questi ultimi mesi. Andiamo con ordine: a settembre vengo convocata per la cattedra di tedesco della scuola del mio cuore; accetto, sebbene sul contratto penda una clausola di recesso, a causa di quello che sarebbe stato l'imminente aggiornamento delle graduatorie (qualcuno si domanderà "perché un aggiornamento graduatorie a scuola iniziata?"...domanda lecita a cui però nessuno saprà dare una risposa sensata). Inizio così a fare lezione nel mio corso di tedesco e - poiché la cattedra prevede ore di potenziamento - anche a conoscere nuove classi e nuovi alunni, con i quali pianifico i prossimi mesi di lavoro, tra cui una prima, dove svolgo la funzione di supplente dell'insegnante di inglese, che ancora non era stata nominata. Ma ecco che in una afosa giornata di fine settembre le graduatorie vengono aggiornate, e nei fatti nulla cambia (per lo meno nella mia classe di concorso), tuttavia le indicazioni calate dall'alto sono chiare: RICONVOCARE, TUTTI! Lo sapevo, mi avevano avvisata nel momento della presa di servizio, per cui avevo ben poco di cui lamentarmi; l'unica cosa da fare era presentarsi serenamente alle convocazioni e sperare di ottenere la stessa assegnazione, ed è esattamente quello che è accaduto, ma l'avverbio "serenamente" non è certo il più adatto per descrivere come io e molti altri colleghi abbiamo vissuto quelle settimane; settimane? Eh già...settimane! Perché le convocazioni sono slittate ben tre volte. Tuttavia, ciò che ha maggiormente minato la mia stabilità non è stato questo continuo procrastinare la data di convocazione, ma il fatto che io, prima della convocazione da parte della mia scuola (che doveva attendere dei tempi tecnici imposti) sia stata convocata per una cattedra in un'altra scuola della città, che stando alla graduatoria d'istituto avrei potuto prendere con certezza. Insomma davanti a me due opzioni: una cattedra di inglese sicura o la mia amata ma altrettanto incerta cattedra di tedesco? Non vi nascondo che ho esitato, del resto, non mi imbarazza affermare che lavoro anche per necessità; tuttavia, attorno a me ho visto il reale mobilitarsi di amici e colleghi, che si sono prodigati nel rintracciare chi stava prima di me in graduatoria, cercando di capire quali sarebbero stati i movimenti e quali reali possibilità avevo di restare; altri mi hanno aiutato a far chiarezza rispetto a ciò che era più giusto fare. Forte anche del sostegno ricevuto, ho voluto rischiare, e non mi sono mai presentata all'altra scuola, e non certo perché amo l'azzardo (non si tira a sorte sulla scuola, perché sarebbe come tirare a sorte sui nostri studenti); ho preferito correre il rischio che chi stava prima di me in graduatoria, potesse esercitare il proprio diritto sulle "mie classi", piuttosto che essere ricordata da mei studenti come un adulto poco affidabile. Ad alcuni di loro avevo promesso che avremmo fatto "fatica insieme" e le promesse vanno mantenute. E se anche fosse andata male, sarei stata quella che a cui "hanno soffiato la cattedra" e non quella che se ne era andata per un posto migliore; non giudico chi ha fatto scelte diverse dalle mie, ognuno di noi vive secondo un proprio orizzonte morale ed etico, confidando in ciò che reputato più degno della propria fiducia. Devo dire che la mia scelta molto è stata orientata dalle mie precedenti esperienze personali, dove la certezza di un destino buono e di un'origine che non delude mai, mi ha guidata e sorretta anche in situazioni ben più faticose, dove di grande aiuto sono state le parole di un amico sacerdote: "Ti fidi Monica? Ti fidi che Colui che tutto può, ha in serbo per te il centuplo quaggiù, sebbene non sempre vada come te lo eri immaginato tu o secondo le strade che avevi in mente tu? Ti fidi ? Si o no?" E anche questa volta, la mia scelta si è appoggiata su questa fragile certezza e così non solo ho tenuto la mia cattedra di tedesco nel corso D, che già di per sé rappresenterebbe un grande guadagno, ma in aggiunta mi è stata assegnata stabilmente anche quella di inglese in quella prima dove inizialmente si prospettava una temporanea supplenza. Così, quelle che per molti potrebbero essere solo tre ore di inglese in una classe prima, per me sono segno di quel centuplo quaggiù promesso a tutti coloro che vivono all'altezza delle proprie certezze. Un centuplo che genera una nuova responsabilità: condurre anche i miei alunni alla consapevolezza che dietro alla porta della loro scuola, li aspetta un destino buono, con me oggi e senza di me domani.
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Oggi la scuola punta sulle conoscenze tanto quanto sulle competenze; evito di ammorbarvi con riferimenti ai quadri normativi per la didattica, vi basti sapere che tra le competenze chiave europee, vengono annoverate quelle sociali e civiche: “Agire in modo autonomo e responsabile, conoscendo e osservando regole e norme, con particolare riferimento alla Costituzione. Collaborare e partecipare comprendendo i diversi punti di vista delle persone." Dunque, la scuola si impegna a creare occasioni di apprendimento che consentano ai nostri figli di imparare a collaborare, ad essere partecipativi ed a comprendere i diversi punti di vista. Come insegnante, non posso che essere d'accordo sul fatto che la scuola lavori con questo intendimento, tuttavia, ritengo che anche la famiglia dovrebbe assumere questo incarico in maniera più consapevole; troppe volte mi trovo davanti a ragazzini poco tolleranti, poco propositivi e soprattutto poco inclini ad ascoltare le opinioni altrui. Cosa possono fare le famiglie a questo proposito? Anzitutto riappropriarsi del proprio ruolo guida ed educativo, e poi garantire ai propri figli uno spazio di ascolto e confronto. Come mamma di preadolescenti so bene che man mano che i figli crescono, le occasioni di dialogo tendono a diminuire: una maggiore ritrosia a confidarsi, una vita frenetica tra sport ed impegni scolastici possono contribuire ad un’erosione del tempo famiglia ed ad una riduzione dei momenti di dialogo; tuttavia la posta in gioco è troppo alta, perché non si tenti di conservare o magari creare nuovi spazi di dialogo con i nostri figli. Inoltre, come insegnante posso garantirvi che i bambini che si sentono a loro agio e correttamente valorizzati nella loro struttura famigliare, tendono ad avere performances scolastiche migliori, proprio perché più sicuri, più capaci di esprimere un punto di vista rispettoso; tendenzialmente sono più ricettivi, perché le loro abilità di ascolto sono più sviluppate. Prima di procedere con la lettura, vi invito a fare un piccolo test; provate a rispondere a queste domande: "Quale è la materia preferita di vostro figlio? Che cosa lo mette in imbarazzo? Che cosa lo spaventa? Chi sono i suoi tre amici più stretti? Per vostro figlio, cosa rende una giornata, una “buona giornata”? Chi è la sua insegnante preferita? Ma soprattutto perché è la sua preferita?" Immagino che le mamme dei bambini più piccoli risponderanno con più agio, mentre quelle dei ragazzini, potrebbero essere prese da qualche dubbio. State pure tranquille, perché il punto non è conoscere ogni più intimo pensiero dei nostri figli, che hanno diritto alla loro privacy, esattamente come noi. La questione è davvero un'altra: garantire la nostra presenza e la possibilità di ascoltarli, quando loro (senza alcuna forzatura) ne sentono la necessità; ma va da sé, che se vivono in un ambiente animato da un dialogo effervescente, dove ogni punto di vista viene valorizzato, sarà più facile che anche loro si aprano al dialogo e alle relazioni…e non solo in famiglia. Sono infatti convinta che le relazioni famigliari siano propedeutiche a quelle esterne. Tornando alla necessità di creare opportunità di dialogo genitori/figli, la mia esperienza mi dice che non ci sono regole: ogni famiglia terrà conto della propria storia, delle effettive possibilità, dell'età dei propri figli e naturalmente delle personali attitudini. Noi, ad esempio, puntiamo molto sul momento della cena, e non importa se non sempre siamo tutti insieme, perché non si tratta di una riunione di famiglia, ma di rendere il momento della cena, per chi c’è, occasione piacevole per stare insieme e per continuare ad essere riferimento l'uno per l’altro. Questo non è uno spazio dove io insegno, ma semplicemente il luogo in cui condivido la mia esperienza, ed è con questo spirito che vi confido che il tempo a tavola per me è l’occasione non solo di ascoltare le mie figlie, ma anche per potermi esprimere usando soprattutto parole ed espressioni “ponte”, in modo che sia più facile farmi capire ed avvicinarmi a loro, sperando che il mio esempio possa essere utile affinché anch'esse siano poi capaci di usare le stesse espressioni per creare spazi di dialogo con i loro amici o insegnanti. Inoltre, potrà suonare scontato, ma nel momento della nostra cena non mancano mai le parole: “per favore, grazie, prego”. Se non ricordiamo ai nostri bambini che queste parole sono importanti, invitandoli ad usarle quotidianamente a partire proprio dai momenti a tavola, non stupiamoci, se poi crescendo daranno tutto per scontato, tramutandosi in piccoli tiranni. Concludendo, per noi la cena è molto più che alimentarsi: è l’occasione per la condivisione delle nostre gioie e delle nostre preoccupazioni, il momento in cui ascoltare e farci ascoltare, e per le nostre figlie una preziosa opportunità per aumentare il loro potenziale di apprendimento e sviluppare le loro abilità relazionali.
Dimenticavo: se non spegnete la televisione durante i pasti, non funziona! Puntualmente, al termine della scuola, i social diventano il campo di battaglia di due opposti schieramenti: chi sostiene l’inevitabile necessità dei compiti delle vacanze e chi invece li ritieni inutili, se non addirittura dannosi. Per quanto mi riguarda: a Giugno assegno i compiti ai miei studenti (e chiaramente a Settembre li correggo!) e passo i mesi di Luglio ed Agosto ad assicurarmi che le mie figlie eseguano i loro, senza che questo impegno infici i benefici delle meritate vacanze (loro e mie!) …già, perché i compiti possono essere uno stress anche per i genitori, se i bambini non hanno interiorizzato la ragione per cui è importante farli. Eccoci al punto: man mano che i bambini crescono, è importante dare loro delle motivazioni che giustifichino la loro fatica e che faccia loro intuire il vantaggio che ne deriva. Non voglio certo affermare che tutto deve essere fatto in un’ottica utilitaristica, bensì indicare che i nostri bambini affronteranno più serenamente gli impegni scolastici - compiti delle vacanze compresi – se potranno almeno presagire che il compito non è fine a sé stesso, ma pensato per loro e per la loro crescita. E va da sé, che una caterva di compiti non serve a nulla, se l’obiettivo è la crescita dei nostri alunni/figli. Ben vengano dunque i compiti pensati e calibrati sulla base di età e bisogno educativo, che siano un supporto al lavoro fatto durante l’anno, che impegnino i bambini ed i ragazzi per non più di qualche ora a settimana, lasciando loro la possibilità di sentirsi davvero in vacanza e godere perfino di un tempo di “noia” (la cui importanza è purtroppo oggi sottovalutata). Sono contraria (soprattutto come insegnante) a “sommergere” i bambini di compiti, perché può essere davvero controproducente; e anche quando un bambino ha bisogno di eseguire un lavoro estivo di recupero sulle proprie fragilità, meglio pensare ad un lavoro personalizzato, che punti esplicitamente a colmare le lacune più profonde, che gli restituisca anche una certa fiducia nelle proprie capacità di recupero, piuttosto che un lavoro impersonale e generico. Io, ad esempio, nelle mie classi non assegno a tutti gli stessi compiti, bensì prevedo lavori estivi diversi a seconda dei differenti livelli di apprendimento; del resto, se durante l’anno, la scuola ci chiede percorsi differenziati, perché d’estate dovrebbe essere diverso? Come mamma, apprezzo sempre quando, gli insegnanti dei miei figli, oltre ad assegnare i compiti di rito, suggeriscono di usare i mesi estivi per leggere ciò che più interessa. E compito o non compito, ritengo che in questo caso i genitori possano fare molto, proponendo titoli, affiancando i più piccoli nella lettura, offrendo il loro punto di vista su libri letti in passato. Io stessa assegno ai miei ragazzi delle letture estive che siano adeguate alla loro conoscenza del tedesco, preoccupandomi di scegliere dei titoli che possano incontrare l'interesse della maggior parte, sebbene trama e contenuti, nei primi approcci narrativi, passino sempre un po' in secondo piano, poiché lo studente è ancora molto concentrato sulle strutture linguistiche e idiomatiche. Qualunque sia il titolo proposto, ho sempre l'accortezza di leggere un paio di pagine (o addirittura di capitoli) con i ragazzi negli ultimi giorni di scuola, di modo che abbiano un metodo e che capiscano che non è un lavoro al di sopra delle loro capacità. Come già anticipato, non assegno a tutti gli stessi compiti: che senso avrebbe chiedere ad un bambino di leggere un libro in tedesco, sapendo che non ce la farà mai, perché ancora la conoscenza delle strutture più elementari è lacunosa? Sono certa che lo ritroverei a Settembre più affaticato (per lo meno in tedesco), di quanto fosse a fine anno. Non mi interessa affaticare o punire i ragazzi; desidero che imparino la mia materia, non che la detestino! Per cui ad alcuni ho suggerito uno dei classici Sommerheft - un eserciziario per il recupero della grammatica e del lessico necessario per affrontare serenamente il prossimo anno scolastico. Concludo con un aspetto a me caro sul tema "compiti estivi": questa lunga pausa, dove il tempo non appare tiranno, (tre mesi sono oggettivamente un periodo lungo) sono l'occasione perché i figli facciano da soli il più possibile; correggere e far sentire la nostra presenza è importante sempre, ma sostituirsi a loro non è una buona prassi educativa, e l'estate può davvero rivelarsi un banco di prova per la loro autonomia.
Infine, credo che riuscire a tenere una distanza opportuna dai loro compiti scolastici ci permetta di appropriarci di spazi educativi meno accademici. Ben sappiamo che gli spazi di apprendimento non sono solo quelli proposti dalla scuola, ma tendiamo a dimenticarci che i primi insegnanti dei nostri figli siamo proprio noi genitori. La mia esperienza personale mi porta a dire che davvero in estate le occasioni di apprendimento e consolidamento delle conoscenze si moltiplicano, senza bisogno di passare ogni giorno di questa lunga pausa estiva sui libri; pensate semplicemente al fatto che la spiaggia o il bosco possono trasformarsi in laboratori a cielo aperto, o che una passeggiata in bicicletta può essere l'occasione per imparare qualcosa di nuovo sul nostro territorio, o perfino, che una volta ogni tanto, si può stare alzati fino a tardi per vedere tutti insieme un film in lingua straniera....va beh... ammetto che questo ultimo consiglio ve lo poteva dare giusto un'insegnante di lingua2! Se avete commenti o esperienze, su questo tema, sarò felice di leggervi. Ho aperto questo blog con il desiderio di offrire qualche risorsa didattica per l'insegnamento e l'apprendimento della lingua tedesca, partendo dalla mia esperienza di insegnante. La mia didattica però non può prescindere da alcune osservazioni di carattere educativo, che mi portano a fare delle riflessioni che vanno al di là dell'insegnamento del tedesco, e che mi costringono giorno dopo giorno a fare i conti con il dato antropologico (ossia con l'umanità, la mia e quella dei miei studenti). Permettetemi dunque di condividere ciò che alcuni colleghi ed io (siamo tutti insegnanti di ragazzini tra gli 11 e i 19 anni) osserviamo ogni anno tra Aprile e Maggio: sebbene la scuola non sia ancora finita, alcuni studenti non sembrano cogliere la differenza tra un banco di scuola ed una sdraio sulla spiaggia e si presentano in classe con degli outfit al limite della decenza. Oltre ad essere un'insegnante sono mamma anche di preadolescenti, per cui vivo le gioie che questa età riserva, ma anche la fragilità tipica di questi anni; so pure, che dietro a questi look, spesso ci sono genitori che tentano faticosamente di imporsi e non approvano le scelte dei propri figli, tuttavia questa è un'età dove la disapprovazione non basta, e bisogna intervenire con più polso. Non è mai facile dire di no, eppure come recita un classico della parenting literature, ci sono dei no che aiutano a crescere (e non è che a 13 anni hanno smesso di crescere); il mio suggerimento, come insegnante e come mamma, è quello di dire un secco no a shorts inguinali, a magliette bucate o top striminziti che lasciano scoperto l'ombelico, a prendisole, a canottiere e ad infradito per venire in classe, e lasciare che i ragazzi riservino questi capi per piscina e spiaggia. So bene che a casa, così come a scuola, imporre il proprio no, non sia sufficiente, tanto più se siamo davanti a ragazzi in crescita: noi genitori dobbiamo essere capaci di offrire ragioni ed alternative. Occorre mostrare ai nostri figli come la moda possa essere un'occasione buona per esprimersi, e non il maldestro tentativo di mostrarsi per ciò che non si è. Il buon gusto è anche un'arte e dunque va affinato, partendo - se necessario - dalla scelta di una banale T-shirt optando per quella che più è adeguata ad età e contesto. Il tema mi sta a cuore, perché mi sta seriamente a cuore il tema del rispetto, ma solo quello scevro dalle ideologie. Se ne parla tanto anche a scuola, (si dedicano trimestri interi a sviluppare progetti scolastici sul rispetto), ma poi ci si perde su questi dettagli, che tanto piccoli, a mio parere, non sono. Che rispetto dovrei insegnare alle mie figlie e ai miei alunni, se non a partire da quello per sé stessi? Dico loro che devono farsi rispettare e poi permetto che vadano in giro con abiti (anche a scuola!) che non rispettano la loro età? né la loro dignità? La mia esperienza mi ha insegnato che dietro a quei look "più trasgressivi" (che poi, cosa ci sarà di trasgressivo nel mostrare biancheria intima ed ombelico a scuola?) si nasconde spesso il tentativo di lasciare un segno, di trovare il proprio posto a scuola e nella società; una società che non appare più capace di farsi carico della fragilità dei nostri ragazzi, ed anzi suggerisce modelli e riferimenti poco adeguati, perseguendo più logiche di business che educative. Immagino che qualcuno possa ritenere questa mia riflessione segno di un formalismo; ma vedete, quando in gioco ci sono i nostri figli, la loro educazione, lo sviluppo del loro senso critico, la loro autonomia di pensiero, la loro libertà (quella vera, che non può essere confusa con "faccio ciò che mi pare e piace) non stiamo parlando di formalismo, bensì di forma, di una forma che è tutta sostanza!
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Aprile 2021
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